L'esposizione attraversa l'arte
del XX secolo vista dalla particolare angolazione critica delle collezioni del
museo che mostreranno significativi intrecci culturali della storia dell'arte
del secolo appena trascorso.
Le Raccolte d'Arte del Mart, nate
attorno ad un nucleo originario prevalentemente legato alla storia del
Futurismo, si sono via via arricchite con acquisizioni di opere di artisti di
fama internazionale.
Il percorso espositivo parte dalle
ricerche del Futurismo (Boccioni, Balla, Depero e Prampolini), ripercorre le
grandi tappe del primo ' 900, con aperture sulla Metafisica, il Primitivismo, il
Realismo Magico.
Gli anni del secondo dopoguerra
saranno presentati attraverso protagonisti quali Fontana, Burri, Manzoni,
Melotti, Vedova, che dialogheranno con alcuni protagonisti delle vicende più
significative della ricerca contemporanea, dalla Pop Art all'Azionismo Viennese,
all'Arte Povera, alla più giovane pittura del nostro tempo, con presenze che
segnano la direzione critica intrapresa dal Mart in questi quindici anni di
attività.
La mostra inaugurale
Le Stanze dell'Arte.
Figure ed immagini del XX secolo
Gabriella Belli
“È proprio del pensiero un momento d’universalità: ciò che è
stato pensato sarà necessariamente pensato ancora, in un altro luogo e da
qualcun altro: questa certezza accompagna il pensiero più solitario e impotente”
Th. W. Adorno, Osservazioni sulla teoria critica, 1969
Nelle grandi esposizioni, pensiamo ai Salon parigini
dell’800, con il termine tableau drapeau si era soliti indicare il quadro che
occupava la parte centrale di una parete.
Un posto ambitissimo, come si può immaginare, che attribuiva all’opera prescelta
un’aura speciale nell’affollamento di dipinti, che secondo una tradizione ancora
in uso ai primi anni del XX secolo, venivano appesi a coprire completamente la
superficie della parete, su su fino alla cimasa, come ricorda Paolo Fossati, che
al tableau drapeau ha dedicato la sua attenzione nel bellissimo volume Storie di
figure e immagini.
Osserva Fossati che “l’essere collocata al centro, in ottima, ben visibile
posizione, sottolineando d’autorità dimensioni, forza, argomento figurativo (e
questo più del resto attirava l’attenzione) con un riconoscimento forte, faceva
del quadro un’opera al tempo stesso impegnativa per il suo autore e importante
(quale ne fosse poi l’accoglienza), a giudizio intanto delle giurie degli
organizzatori, per gli spettatori. Per l’autore, e quindi per giornalisti e
critici, quel quadro su cui l’artista aveva investito in proposta originale, al
limite della sottolineatura polemica, tanto da suscitare discussioni e rigetti,
non poteva che essere un pezzo di resistenza.”
Benchè l’attuale museografia non contempli più tale modo di allestire lo spazio
espositivo e di presentare l’opera d’arte (ma non mancano esempi in cui si è
voluto ricostituire con interessanti risultati l’unità culturale delle antiche
quadrerie, riproponendone gli stessi assetti espositivi) non di meno si continua
a credere che il fondamento su cui in passato si era costituito il valore
simbolico del tableau drapeau, conservi ancora un importante significato
culturale, purchè lo si intenda in chiave di moderna museografia, ovvero di
riproposizione della centralità dell’opera come sistema articolato di relazioni.
Proprio a questo principio ordinatore si è ispirato il progetto delle Stanze
dell’Arte, dove si è voluto rinnovare simbolicamente l’antica usanza del tableau
drapeau, riproponendo lungo l’ampio percorso espositivo delle gallerie
permanenti progettate da Mario Botta, la centralità privilegiata di alcune opere
della Raccolta d’Arte del museo, dipinti che per la loro stessa definizione di
capi d’opera si rivelano di grande interesse per la conoscenza del loro autore
ma, primariamente, per la messa in luce di quelle relazioni culturali, che fanno
di questi quadri uno strumento vivo di indagine nell’infinito mondo dei valori e
delle immagini.
Scelti tra quelli che maggiormente esprimono il frutto di una alta elaborazione
di poetica, i tableaux drapeaux del museo ci parlano di programmi innovativi e
di ritorni all’ordine, ma anche e sorpattutto di tensioni culturali, viste nel
confronto con la ricerca di quanti, talvolta amici e in una coincidenza
cronologica, ma anche sconosciuti e a grande distanza geografica, hanno
attraversato lo stesso turbolento territorio dell’arte.
Quello che siamo andati cercando è una sorta di spazio ideale dentro il museo,
ordinato secondo l’idea della contiguità culturale, dove sia possibile ascoltare
le voci di quelle relazioni elettive, che confermano, se ancora ce ne fosse
bisogno, quanto errabondo sia quell’invisibile pensiero che genera l’immagine
del mondo e la sua materializzazione artistica.
Il generoso prestito di alcuni capolavori, oggi conservati in collezioni private
e in prestigiose istituzioni internazionali, ha permesso di realizzare questo
confronto, riconfermando tesi ma soprattutto aprendo stanze inedite alla
ricerca.
Il volto del museo e l'anima del luogo
Progettiamo il nostro futuro scegliendoci un passato. Lo
afferma Heller nel suo ampio saggio dedicato all’uomo del Rinascimento. Spiega
infatti l’autore polacco che la scelta del passato significa che i popoli di una
data epoca scelgono fra la storia passata e i miti interpretati in forma di
storia, quelli in cui trovano delle analogie, non importa se il loro contenuto
abbia un valore positivo o negativo. Con ciò l’intero processo della ricerca del
precedente verrebbe ristrutturato. Se è vero, come continua Heller, che il
precedente ha sempre valore primario nella storia della prassi umana, anche nel
campo dell’arte parrebbe importante definire, per un luogo che aspetta una sua
prima attribuzione d’identità, a quale passato si intenda riservare quel valore
mitografico di cui parla Heller e di cui il museo dovrà sempre tenere debito
conto nella pratica quotidiana della sua attività.
Il problema dell’identità, visto nella sua relazione con la storia, si pone
dunque come problema centrale nell’avvio del nuovo Mart, anche in considerazione
della rimessa a fuoco del progetto culturale complessivo, necessitata dal
significativo cambiamento strutturale, ma direi anche organizzativo e quindi
scientifico e programmatico, derivante dall’apertura della nuova sede.
Sul piano storico-artistico, campo che mi è più congeniale di quello assai vasto
della Storia che lascio volentieri a chi meglio di me può intervenire, vorrei
subito indicare come luogo privilegiato per l’avvaloramento dell’identità
culturale del Museo, l’ambito delle sue collezioni permanenti, viste nella
relazione con il territorio in cui il museo è nato.
È fuori dubbio infatti che proprio la collezione permanente, sia essa facente
parte di un patrimonio culturale che rispecchi la vita artistica del luogo
d’appartenenza o sia essa figlia di un luogo estraneo, sviluppi tali energie
creative e relazionali da modificare ed accrescere culturalmente il territorio,
che identificandosi nel tempo con essa, ne alimenterà via via il valore
simbolico, precisando in maniera sempre più puntuale il suo ruolo culturale e la
sua identità storica.
Nel caso del Mart, la cui collezione è costituita da patrimonio proprio e da
depositi a lungo termine, è di fondamentale importanza capire in quale direzione
si specificherà la natura della sua nuova identità culturale: sappiamo infatti
che se una collezione coincide con il luogo d’appartenenza, ed è il caso del
ricco patrimonio di futurismo che il Mart possiede grazie al lascito di
Fortunato Depero, la sua azione sarà diretta al rafforzamento e al
consolidamento della tradizione culturale locale. Se invece la collezione deriva
da un’altro luogo, come nel caso dei depositi, le donazioni, i lasciti, sappiamo
anche che essa agirà più fortemente sul cambiamento del territorio d’adozione e
sortirà l’effetto culturalmente non trascurabile di introdurre elementi
fortemente innovativi, che orientano ad uno sviluppo allargato il sapere e la
tradizione stessa del territorio ospite. Sinteticamente si potrebbe pertanto
affermare che l’identità culturale che deriva da una collezione permanente puù
avere un duplice effetto: consolida la tradizione se appartiene al luogo stesso
dove il museo opera, investe invece di cambiamenti il territorio, aprendo nuove
possibilità di ridefinizione del ruolo culturale e della sua stessa identità, se
proviene dall’esterno.
Il volto del museo prende forma nell’immagine della sua collezione permanente,
attraverso il compito di raccogliere, testimoniare e valorizzare. L’anima del
luogo, alimentata dalla storia passata e presente, si vivifica invece
nell’esperienza del confronto con ciò che è esterno ad essa, ma che con essa in
qualche modo si relaziona. Scoprire le ragioni di queste relazioni è il compito
del museo che ha scelto proprio questo tema per inaugurare i nuovi spazi di
Rovereto. Sarà dunque nell’equilibrio della relazione che si stabilirà nel tempo
tra museo e territorio, tra le opere d’arte, che concretizzano il pensiero
invisibile della creazione artistica e la storia del luogo – intendendo con
quest’ultimo termine un territorio ben più vasto di quello geografico e meglio
definito come l’ampio spazio in cui si dilata il potere di comunicazione e di
scambio del museo – che si sostanzierà quell’identità culturale di cui oggi
conosciamo solo una parte, quella che deriva dal passato che ci siamo scelti
appunto, e ne intravvediamo a fatica l’altra, quella futura, di cui possiamo
tracciare solo i contorni, dati dalla direzione progettuale intrapresa, dove è
possibile, anzi auspicabile, ricomprendere il primo capitolo della sua storia,
quello delle stanze dell’arte appunto.
Scegliamo il passato
È affidato a Medardo e a Segantini il compito di ricondurre
il passato, di conciliare la storia della lunga tradizione artistica del
territorio con quella ben più vasta dell’arte europea del XX secolo. Medardo
Rosso rappresenta il collezionismo del museo e il dialogo delle sue sculture con
la straordinaria Primavera sulle Alpi di Segantini, incrocia il punto più alto
dell’elaborazione poetica in chiave di identità culturale che il Trentino abbia
avuto dai tempi della grande ritrattistica rinascimentale al servizio dei
Principi Vescovi Madruzzo.
Siamo sul finire dell’Ottocento: questi due grandi protagonisti della pittura
internazionale rappresentano per l’arte italiana il punto di snodo tra le
poetiche del vero e il nuovo che in Italia avanza dalle secche del tardo
simbolismo verso l’avanguardia futurista. Bookmaker e Carne altrui di Medardo
bene introducono il discorso sul collezionismo museale, mentre la presenza
dell’opera di Giovanni Segantini riaccende l’anima del luogo, che avvalora il
proprio significato di luogo della memoria e di transiti culturali così
pregnanti, da generare, come nel caso di Segantini, la più immortale
rappresentazione simbolica della vita del nostro territorio del XX secolo.
Come Medardo nella scultura, così Segantini nella pittura ha toccato il punto
più alto della ricerca italiana fine ’800, una pittura che, come è noto, proprio
attraverso la tecnica divisa porterà alla deflagrazione della materia pittorica
sulla tela, aprendo ad una concezione moderna dell’opera d’arte, che sarà
compito dei futuristi trasformare in azione viva.
La Ricostruzione Futurista dell'Universo
Il Futurismo costituisce l’elemento caratterizzante della
collezione permanente dedicata ai primi decenni del ’900. Le molte sale che
raccontano la storia dell’avanguardia italiana – vista nell’ eclettismo
disciplinare che costituisce uno dei suoi caratteri distintivi rispetto alle
coeve ricerche internazionali, dalla pittura al teatro, alla fotografia,
all’architettura, alla scrittura – mettono in luce la peculiarità culturale del
museo, che nasce da una ben nota tradizione del luogo, la presenza di Depero, ma
anche da un organico e mirato lavoro, ormai decennale, di riordino,
valorizzazione e soprattutto di ampliamento dell’area futurista della
collezione, costituita non solo da opere ma, caso unico in Italia, anche da
archivi (Severini, Carrà, Crali, Depero, Somenzi, Censi, Thayath ecc.) e da un
patrimonio bibliografico di tutto rispetto, che conta oltre 10.000 titoli tra
libri futuristi e sul futurismo.
A Balla, Depero e Prampolini, e alle vicende della Ricostruzione Futurista
dell’Universo, spetta il compito di narrare la storia del futurismo italiano,
visto dall’angolazione particolare del collezionismo museale. E il racconto
prende per l’appunto le mosse dal manifesto della Ricostruzione Futurista
dell’Universo, redatto da Balla e Depero nel 1915 con la supervisione di
F.T.Marinetti. Molti spunti, non è a tutti noto furono rielaborati da idee di
Depero, manoscritte su un manifesto databile 1914, intitolato Complessità
plastica-Gioco libero futurista-L’Essere vivente artificiale. La poetica della
Ricostruzione è dichiarata al secondo capoverso del manifesto del ’15: “Noi
futuristi Balla e Depero vogliamo realizzare questa fusione totale per
ricostruire l’Universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente”.
Balla e Depero, ma si deve aggiungere anche il nome di Prampolini, che negli
stessi anni lavora su un terreno di sperimentazione analogo, hanno come
obbiettivo quello di mettere a punto una nuova estetica della vita, basata su un
intervento di radicale trasformazione dell’ambiente umano che, come è noto,
coinvolgerà la dimensione della casa (dal cucchiaio all’architettura), della
scenografia e del teatro, della pubblicità etc. Elemento fondamentale della
Ricostruzione è il complesso plastico astratto, ovvero l’equivalente astratto
“di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo” combinati insieme
“secondo i capricci della nostra ispirazione per formare complessi plastici in
moto”. Quest’intervento teorico, radicale rispetto alla dimensione sperimentale
delle coeve ricerche dell’avanguardia internazionale (dunque anche rispetto a
quanto sta facendo Boccioni in questo stesso torno di tempo) porterà al
superamento delle formulazioni precedenti del Futurismo:“Nessun artista di
Francia, Russia, d’Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualcosa di
simile o di analogo. Soltano il genio italiano, cioè il genio più costruttore e
più architetto poteva intuire il complesso plastico astratto”.
Nelle stanze dell’arte tutto questo trova forma e contenuti: ora dedicate al
delicato raffronto con i futuristi della prima ondata, Boccioni e Carrà in
particolare, dove si afferma la dicotomia tra la linea esistenziale del
futurismo (Balla) e quella formale, analogica del dinamismo plastico boccioniano,
ora aperte ad un dialogo illuminante con i protagonisti dell’avanguardia
internazionale, da Malevic a Léger, con il quale si apre il confronto
nell’ambito della poetica dello splendore geometrico meccanico, alle russe
Gonciarova ed Exter, le stanze dell’arte danno vita a quelle affinità culturali
ed artistiche, che maturate in prmo luogo grazie all’opera di proselitismo di
Marinetti, diedero buoni frutti nella fattiva collaborazione degli artisti, di
coppie diventate famose come la Gonciarova e Larionv, che tra il 1916 e il 1918
“alla corte” di Diaghilev tra Roma e Parigi addestrarono all’arte del
palcoscenico il giovane Depero, di Alexandra Exter e Ardengo Soffici, la cui
amicizia fu uno degli anelli principali di quella catena di relazioni tra Italia
e Russia, che pur mediata sul piano teorico dalla lezione cubista francese e da
elementi dell’orfismo, portò ad autonomi quanto inediti componimenti di poetica
cubo-futurista.
Dopo la sarabanda delle parolibere e della pittura dei rumori, una stanza ideale
per accogliere l’omaggio al grande poeta e letterato, musa del Futurismo,
Filippo Tommaso Marinetti, dopo le visioni cosmiche di Prampolini, che
propongono l’unica via d’uscita possibile dall’inattualità oramai latente del
Futurismo, dopo la lezione di Sant’Elia e di quanti come Chiattone, Crali lo
stesso Depero si occuparono del rinnovo dell’architettura, è all’arte meccanica,
e alla tragica premonizione di quella alienazione dell’uomo, drammatico
appannaggio dell’artista del secondo dopoguerra, che viene dedicata l’ultima
stanza del percorso nelle poetiche del Futurismo. Stagione estrema, che riunisce
sotto lo stesso tetto Schlemmer, ancora Léger e il non più giovane Depero, che
nell’opera La rissa, dipinta nel 1927, ripropone in versione più meccanicistica
e affabulatoria la durezza metallica del realismo monumentale, che aveva
caratterizzato tra il ’20 e il ’24 il rinnovato interesse di Léger per la figura
umana. È il tema del robot, dell’uomomacchina, del manichino, insomma il tema di
quella negazione del corpo umano, che nelle straordinarie invenzioni robotiche
del Balletto Triadico di Schlemmer si avvicinerebbe ad intuizioni costruttiviste
se non fosse per quella promessa di tragedia che si cela appunto dietro alla
perdita di peso del corpo, alla sua trasformazione in un tragico- comico clown.
“Nasce un’arte nuova” – scrive Léger – “prende posto e s’aggiunge ai capolavori
delle epoche precedenti e, cosa curiosa, ci si accorgerà più avanti che questa
nuova arte non è così rivoluzionaria come quella di chi si rifà alle tradizioni
antiche con le quali ha dovuto combattere liberandosene in piena solitudine. È
un dramma in numerosi quadri. La fine di questa arte è la stessa di quella”.
Il candore arcaico
La storia dell’arte propone continui mutamenti di rotta,
andate e ritorni tra il regno di Dionisio e quello di Apollo, ci costringe a
ripercorrere lo stesso arco di tempo, ora seduti nel carro del dio dall’arco
d’argento, ora posseduti dai misteri del dio nato dal corpo di Zeus e di Semele.
Il cammino sembra non accorciarsi mai, quasi ci fossimo addentrati incautamente
in un sentiero labirintico, che ci riporta dopo lunga strada al punto di
partenza. Ma la meraviglia ci spinge ogni volta a proseguire. Il percorso non è
lineare e ci pone di continuo davanti ad una scelta, due gli dei che ci
chiamano, due le strade che possiamo esplorare. Abbiamo individuato nuove fonti
della modernità: risaliamo ad esse e da lì muoveremo verso il centro del secolo,
passando da una stanza all’altra, consapevoli che il cammino verso la
contemporaneità è ancora lungo e ci riserverà continue sorprese.
Primitivismo, arcaismo, metafisica, classicismo, realismo magico, nuova
oggettività quante le strade dell’arte moderna tra i primi anni dieci e il terzo
decennio del secolo scorso? Quanti tableaux drapeaux possiamo innalzare nelle
sale del museo al ruolo di segnale emblematico di quel rinnovamento che, in
opposizione al Futurismo, si è consumato nel ritorno alla antica lingua dei
maestri primitivi italiani, di Giotto, di Piero e di Paolo Uccello? E pure si è
alimentato del mito apotropaico della ben nota maschera Fang, in possesso di
Derain2, icona di quel primitivismo che germinerà i propri accenti tribali nei
capolavori di Picasso del primo decennio del secolo. Ritatti, disegni e dipinti
di figura come Ragazzo nudo, che, senza scomodare le fin troppo note Demoiselles
d’Avignon, mostra già attorno al 1906 quell’austera plasticità arcaica, che fu
all’origine del volto più dionisiaco dell’arte moderna. È lo stesso sintetismo
arcaico che coglierà d’emozione Amedeo Modigliani, da poco a Parigi (1906),
nella sequenza delle sue raffinatissime Cariatidi, e che metterà alla prova
anche il giovanissmo Klee, in un raro quanto prezioso disegno di figura-grembo
femminile realizzato nel 1910, molto prima dunque di quel suo “affacciarsi alla
soglia del colore”, che coinciderà con il viaggio in Tunisia nel 1914.
Quella vocazione all’arcaismo è ciò che terrà desta anche l’attenzione di Max
Weber, il russo americano che nel salotto di Gertrud e Leo Stein, nelle riunioni
del sabato sera, ebbe modo di assistere alle interminabili discussioni sulle
nuove tendenze dell’arte moderna e soprattutto di conoscere Picasso,
nell’ottobre del 1908, con il quale condivideva l’identica passione per l’arte
primitiva e la comune amicizia con Rousseau, “il vero primitivo del nostro
tempo” secondo la sua ben appropriata definizione. “È all’impegno di Max Weber
che si deve l’interesse crescente per l’arte primitiva, e la passione per
Rousseau, del circolo degli artisti riuniti attorno alla Galleria 291 di
Stieglitz a New York, una passione la sua, che mescolata alla lezione dei nudi
del periodo negro di Picasso, concorre alla straordinaria emergenza plastica del
quadro Figure Study del 1911, un’opera che dialoga serratamente con l’accensione
espressionista del Ritratto di Eraclea di Jawlensky, dipinto un anno dopo, nel
1912, opera alla quale sembrerebbe essersi riferito l’autore quando scrisse:“Ho
dipinto grandi opere figurative in colori molto forti e brillanti, assolutamente
non nauralistici né contenutistici. Ho usato molto rosso, azzurro, arancio,
giallo cadmio, verde ossido. Le forme contornate pesantemente in blu Prussia,
hanno la forza che emana da un’estasi interiore… È stata una svolta nella mia
arte”.
Primitivismo e arcaismo trovano la loro metafora nella modernità senza tempo
dell’opera di Rousseau il Doganiere, père Rousseau per gli increduli, che
accorrevano al n.2 di rue Perrel per farsi una risata, artista “universale”,
come lo definì Tristan Tzara, per gli amici veri, Apollinaire, Marie Laurencin,
Delaunay, Vlaminck, Brancusi, Max Jacob, André Salmon, Picasso e il già
ricordato Max Weber, oltre che pittore cantante di talento, che offriva al
pubblico accorso alle serate musicali organizzate da Rousseau, arie di Händel.
Anche a Rousseau, che nelle stanze dell’arte, grazie ai due straordinari dipinti
Eva e Ritratto di donna, ci fa rivivere quella indimenticata stagione parigina
dei primi anni del ’900, nutrita di fermenti cubisti ma anche del candore
arcaico della sua strabiliante fantasia, cresciuta nella periferia parigina e
coltivata nelle gite domenicali nel Jardin des Plantes ou d’Acclimatation6, va
il merito se la fiaccola di una naïvitè arcaica ed innocente si accese nel cuore
di molti artisti moderni, da Picasso naturalmente, agli italiani Carlo Carrà,
Tullio Garbari e Gigiotti Zanini, ma anche nei cuori di pittori per certi versi
più estranei al dibattito europeo di quegli anni, come Diego Rivera e la più
giovane Frida Kahlo, artisti che, come i nostri, perlustrarono in lungo e in
largo i caratteri distintivi e le possibilità espressive di una pittura
dell’origine, animata da suggestioni e motivi che lì si appropriarono della
storia e dei riti del popolo latino-americano e qui si inverarono nel recupero
di una tradizione, che portava alla riscoperta delle antiche genti, come nel
caso di Tullio Garbari e delle sue arcaiche, candide composizioni “retiche”.
In Carrà il richiamo alla figurazione primitiva di Rousseau vivrà sotto più
nobili spoglie e si farà allegoria nella disadorna stanza del Fanciullo
Prodigio, dipinto nel 1915, e poi, illuminato dalla Parlata su Giotto e dalle
riflessioni contenute in Paolo Uccello costruttore, nel primitivismo
scarnificato e innocente delle Figlie di Loth del 1919:“non va forse
interpretata così, come una esercitazione primitivistica, la semplificazione
dello stile nelle rarefazioni formali delle varie figure?”, scriverà Paolo
Fossati nel 1995, nelle intense pagine che dedica a questa icona della modernità
in Italia, quadro nel quale ci fa osservare “tutto è affidato alla stilizzazione
delle pieghe, ma anche alla tenuta dei profili, alla densità persino legnosa
dellle sagome. Nel solco di una tradizione che sembra per noi ben identificata.
La liturgia di una raggiunta armonia rivelatrice di nuove, eterne verità chiede
stilemi e ponderazioni severe e dove l’astrattezza temporale del racconto sembra
esprimersi in una lezione di primitivismo appunto”.
La misura classica
Carrà vuole interpretare la storia. È passato il tempo breve
ma intenso della rarefazione metafisica, degli anni di Ferrara, dell’intimità
con de Chirico. Eppure uno sguardo bisogna pur dare agli stupefacenti esempi
della resistenza pittorica di quest’ultimo, del grande greco dal volto d’Apollo,
alla stanza dove, tra l’Autoritratto con Euripide Nulla sine tragoedia gloria, e
i manichini filosofi della Tragedia e della commedia, la Matinée angoissante del
1912, mostra lo spettro dell’enigma, ambientato nella città sabauda, il lungo
porticato in ombra che corre a perdita d’occhio sulla sinistra e che incrocia in
primo piano la sagoma cupa di un treno che passa. “La pittura di de Chirico –
scriveva Soffici su Lacerba ancora nel 1914 – non è pittura nel senso che si dà
oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di
fughe quasi infinite di archi e di facciate, di grandi linee dirette, di masse
immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, egli arriva ad
esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità di stasi,
che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo della
nostra anima quasi addormentata. Giorgio de Chirico esprime come nessuno l’ha
mai fatto la melanconia patetica di una fine di bella giornata in qualche antica
città italiana, dove in fondo a una piazza solitaria, oltre lo scenario delle
logge, dei porticati e dei monumenti del passato, si muove sbuffando un treno,
staziona il camion di un grande magazzino, o fuma una ciminiera altissima nel
cielo senza nuvole”. La metafisica prima, il tempio d’Apollo poi: de Chirico ha
fatto la sua scelta ancora negli anni di Monaco, quando guardando a Bocklin e a
Klinger trovava conferma alla sua idea di moderno nell’eloquenza della scultura
antica e dell’arte italiana del Rinascimento. Risorge il mito mediterraneo, la
classicità ritrova le sue allegorie. Nell’estate del 1919 anche Matisse
trasferitosi a Issy-les-Moulineaux, dipinge alcune grandi nature morte dove
inserisce elementi tratti dalla statuaria ellenistica, come nello straordinario
Bouquet of Flowers, dove chiaro è il riferimento alla serie dei disegni coevi
ispirati agli studi di nudo della plastica michelangiolesca e nel contempo,
guarda e riflette sull’opera dell’amico Maillol che, come lui, trova sorgenti
vitali nella staturia greca, delle figure del tempio di Delphi in particolare,
immagini che serberanno il valore di una continua reminescenza culturale e che
ritorneranno come una costante nel modellato plastico eppure tettonico delle sue
Figure femminili degli anni Venti.
Quando nel 1921 Worringer, ammirando il glorioso dipinto di Carrà “Il pino sul
mare”, considererà che l’Europa ha trovato finalmente la sua misura classica, in
Italia la stagione propizia per il recupero in chiave moderna del classicismo è
da tempo annunciata, e prova ne sono non solo il bellissimo quadro delle Figlie
di Loth, ma anche il realismo ideista9 della Maternità del 1916 di Severini, che
rispecchia una vocazione alla classicità tutta europea, che ha in Picasso, come
è noto, un altrettanto grande interprete e precursore. Nel 1922, quindi solo un
anno dopo lo scritto di Worringer, che sembrerebbe più riferirsi alla dimensione
dell’indicibile realismo magico che alla monumentalità talvolta anche greve di
talune opere novecentiste, alla Galleria Pesaro di Milano si riuniscono attorno
a Margherita Sarfatti, quelli che saranno i principali protagonisti di questa
importante stagione della pittura italiana, Bucci, Dudreville, Funi, Malerba,
Marussig, Oppi, Sironi. L’anno successivo si costituiscono come gruppo e
iniziano quell’intensa attività espositiva che li porterà, con varie defezioni
ma anche con allargamenti a dismisura alla Biennale di Venezia nel 1924, alla
Permanente di Milano nel 1926, e in mostre all’estero, a Ginevra nel 1927 e in
Germania, a Lipsia, nel 1928, per ricordare solo le più importanti.
Sarà proprio nella mostra veneziana del ’24, che la presenza di Casorati e di
Guidi porterà alla luce quella tendenza al realismo magico (già viva peraltro
nella loro opera dei primi anni ’20), fatto di atmosfere sospese alla maniera di
Bontempelli, che pur non toccando mai la durezza algida della nuova oggettività
tedesca, di un Otto Dix o di uno Schad, teorizzata nel 1925 da Franz Roh, si
mostrerà capace di un monumentalismo sintetico, talvolta fin quasi troppo
neoclassico, ma anche assai convincente come si vede nella superba tela
dell’Allieva dipinta da Sironi nel 1923 e nel più tardo Nuotatori di Carrà.
Premonizioni
C’è un’opera di Picasso, Maya del 1938, che ci porta
direttamente dall’esperienza di Guernica in prossimità degli orrori della
guerra, c’è un’opera di Dix, Nelly, del 1925, che contiene la tragica
premonizione del futuro. È negli sguardi sorpresi dell’infanzia negata degli
Scolari di Casorati, dei Bambini che giocano di Caganccio, delle sorelline di
Nepo, in Maya e Nelly, che sentiamo il rimorso dell’essere stati adulti in
un’epoca in cui si preparavano i peggiori crimini contro l’umanità.
I percorsi del silenzio
Ma c’è anche chi, sulla scacchiera degli eventi dell’arte,
nel silenzio di un’impresa quasi impossibile, giorno dopo giorno gioca la sua
partita solitaria, una rinuncia a partecipare che è anche un distacco, un
prendere le distanze, un dichiarare la propria diversità, come diversa da tutto
ciò che si fa nell’arte di quegli anni, è l’impresa di catalogare
quotidianamente, con perizia e amorosa sollecitudine, con puntiglio e maestria,
le piccole cose del panorma domestico, bottiglie, tazze, brocche e qualche
barattolo vuoto, rimasto a decantare sul tavolo di casa.
“Nel ’31 – scrive Arcangeli nella tanto contestata monografia dedicata al grande
bolognese – Morandi, torna a colare a picco, in silenzio. Modestamente, senza
importunar nessuno, senza che nessuno intenda davvero, dipinge i quadri e lavora
all’incisione ch’io ritengo le opere più ardite e nuove dell’Europa di quel
momento. Sono i suoi soliti oggetti, ma adesso egli riprende l’indagine, tentata
in profondità verso la fine del ’29 e proseguita saltuariamente nel ’30, con
anche più dura, triste, accanita sapienza… Ogni opera, testimonia d’una
ossessione allucinata, potente, quasi folle. Davvero, come testimonia Brandi, si
potrebbe ora parlare di attacco dissolvente all’oggetto… ma l’oggetto non cede
mai… Sono i suoi ostaggi, questi oggetti di cui egli è, tuttavia, prigioniero;
sono ostaggi e, sicuramente, houtes pates”.
Esiste un forte richiamo tra il Morandi poeta della vita misteriosa delle cose e
l’architetto costruttore delle forme pure e della non-scultura Fausto Melotti.
Grandi tutti e due, maestri delle semplici sembianze entrambi ed entrambi mossi
da una fede umile ma caparbia nel valore esistenziale dell’arte, questi due
artisti segnarono con il loro lavoro, nella apparente totale diversità che li
contaddistingue, la stagione di mezzo dell’arte italiana del XX secolo, tra gli
anni Trenta e gli anni Sessanta. Morandi, emerso a nuova vita pittorica da una
breve esperienza nelle fila del Futurismo e poi nella ben più matura e
consapevole partecipazione alla Metafisica, e Melotti, che parte invece astratto
nella Milano del Milione e delle riletture di Kandinskij e Le Corbusier,
condividono l’amore per tutto quanto è “contro”, preferiscono l’intimità alla
monumentalità, il silenzio al rumore, le scatole vuote del caffe e le stagnole
ai modelli e al bronzo, l’allegoria al mito. Entrambi raccontano, attraverso la
loro pittura e la scultura, ma nulla è più antinarrativo della loro arte, nessun
oggetto è più immateriale di quelli che entrambi ci mostrano. È l’ansia di uno
spazio esistenziale astratto, dove scrivere le immagini del mondo che li attrae.
È il rigore e l’etica della professione che li unisce e li mette più in alto di
altri. I Sette Savi realizzati da Melotti nel 1937, un condensato di musicalità
che prende forma nelle composte, liscie sagome di questi profeti della perfetta
Armonia, annunciano che nell’equazione spazio-silenzio si è risvegliato l’animo
angelico, geometrico dello spirito creatore.
Materia, Spazio, Idea
Fontana, Burri e Manzoni, ma anche Vedova, Colla, Scarpitta,
Accardi, Sanfilippo, Novelli, Afro, Birolli, tutti, alla fine degli anni
Cinquanta, in prima fila a combattere per una ricollocazione dell’arte italiana
nel panorama internazionale, tutti pronti a ridefinire l’oggetto della pittura,
dopo la querelle figurativo-astratto che aveva infuocato la vita artistica
italiana a guerra conclusa. Le stanze dell’arte per ora mostrano la linea di
tendenza informale, nella sua declinazione spaziale e materica, lasciando ad un
prossimo riesame delle collezioni la raccolta dell’astrattismo geometrico che
discende più direttamente dal lavoro degli anni ’30.
Nel 1966 Burri e Fontana espongono insieme al Museum of Modern Art di New York.
È già una affermazione, dopo anni di duro lavoro. Burri arriva alla pittura più
tardi di Fontana, solo nel 1946, dopo l’esperienza bellica. Ma già nel 1948 ha
preso la via dell’astrazione e nel 1952 ha imboccato con i grandi sacchi una
strada alternativa alla pittura, dove via via si accrediteranno come materiali
possibili le sperimentazioni delle plastiche, dei ferri, dei legni e dei cretti,
questi ultimi, anche se cronologicamente più tardi, ma due bellissimi Tutto
Bianco e Tutto nero portano la data esemplare 1958, scelti per la sua stanza nel
museo, proprio per quelle profonde non rimarginate ferite della materia che ci
pare accompagnino meglio di altri suoi lavori la proposizioni nichilista degli
anni del secondo dopoguerra. Le Nature di Lucio Fontana sono fiori della terra,
grembi aperti alla germinazione, sono corpi violati dal taglio netto, che incide
la compattezza della materia per rivelare accessi nascosti all’intimità: come
nelle pietre di Concetto spaziale del 1955 o meglio ancora nei buchi slabbrati
della stupenda Fine di Dio del 1963, l’artista argentino percorre una strada
tutta sua per ridefinire il rapporto spazio-superficie-materia, è la strada
della totale invenzione, della creazione assoluta, “per Fontana – scrive Birilli
– lo spazio ha un corpo. Con questa semplice certezza che gli viene da quello
che vede, Fontana riesce a confondere davanti ai nostri occhi di ogni giorno,
qualunque nozione di luogo, di tempo e di stato delle cose”.
Per Manzoni le stanze del museo ci riservano quelle opere che più radicalmente
spiegano il suo intervento sull’idea dell’arte e dei suoi oggetti, ovvero quella
parte che più esplicitamente degli Achrome rappresenta per noi, che procediamo
dal pragmatismo della Ricostruzione Futurista dell’Universo, il suo momento più
significativo, ben collocato storicamente nell’azione del Neo-Dada, con qualche
necessaria incursione dunque nell’area di Duchamp, e dei suoi figli, i nouveau
réalistes in primis. La serie delle Linee che misurano il mondo, bene
esplicitano quell’idea fondata sul suo enunciato che ogni azione dell’uomo
appartiene solo alla storia, nasce vive e muore in essa, ed è pertanto il tempo
l’unica dimensione possibile e praticabile per l’arte. Se nulla di
soprannaturale governa la vita degli uomini, ma solo i bisogni primari, non
resta altra possibilità, per sentirsi vivi ed esistere che appagare le proprie
necessità, come per esempio misurare il tempo per possederlo. Nella concezione
materialistica di Manzoni il fare dell’artista non evade verso lo spirituale, il
misticismo: oltre la dimensione dei bisogni e delle necessità non esiste nulla e
solo assecondando questi bisogni l’essere esiste “non c’è nulla da dire, c’è
solo da essere, c’è solo da vivere”. Ecco eplicitarsi la differenza con l’eponge
di Klein, tinta del “tutto blu”, il famoso IKB, il vuoto assoluto, prenatale
dell’umanità, trascendenza mistica. Dissacrante e dissacratore: così l’ironia un
po’ beffarda e scettica di Manzoni diventa parte del precipitato ideologico
della poetica trash, contribuendo a dare voce a quella risposta tutta europea
alla neonata Pop Art americana. Mentre dall’America arrivano messaggi di una
conquistata autonomia artistica, in Francia i nouveau réalistes consegnati alla
storia dall’intuizione intelligente di Pierre Restany, strappano manifesti dai
muri delle strade, assemblano i rifiuti del mondo ridando ad essi voce poetica,
impacchettano, incollano, accumulano, sacrificando sull’altare dell’arte
“l’appassionante avventura del reale, colto in sé e non attraverso il prisma
della trascrizione concettuale o immaginativa”.
Date a Leo Castelli due lattine di birra
Nella completezza di un quadro internazionale esaustivo ma
sempre correlato con le raccolte del museo, il fenomeno della Pop Art si apre ad
una esplicita relazione con quell’area del nostro collezionismo, che corre dai
presupposti teorici della Ricostruzione Futurista dell’Universo fino alla
metamorfosi dell’oggetto dei Nouveau réalistes, attraverso le sperimentazioni di
Schwitters e la dissacratoria Gioconda serigrafata di Duchamp. Non c’è dubbio
infatti, e le opere sono lì a dimostrarlo, che la Pop art ha immagazzinato molte
energie creative dell’arte europea, dal Futurismo al Dadaismo, al Surrealismo,
riconsegnandoci un prodotto artistico di alto gradiente estetico, oltraggioso ma
divertente, insieme ironico e dissacrante, ma non per questo convinto accusatore
della massificazione consumistica, che ha caratterizzato la società americana
degli anni Sessanta e che quest’arte riproduce, o meglio sarebbe dire esibisce.
I legami con il potere sovversivo dell’immagine futurista e dadaista, ed in
particolare con quanto era nel cuore di tutta quella parte dell’avanguardia
europea, che concepiva la coincidenza dell’arte con la vita, dunque il
vanificarsi del confine tra l’estetica e la realtà, trova preciso riscontro
soprattutto nei precursori della Pop, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, nell’environment
provocatorio del primo e nella ambiguità tra significato e immagine del secondo.
Più libero da legami con la vecchia Europa sarà invece Roy Lichtenstein e
soprattutto Andy Warhol, che realizza dei veri e propri oggetti di consumo,
nella ossessiva ripetizione e nella meccanicità del loro riprodursi, spogliati
da ogni dubbio di una possibile relazione sentimentale con il loro autore.
A seguire, le filiazioni della Pop, questa volta sì decisamente tutte made in
USA, in primis la Minimal Art, che, pur nella diversa direzione intrapresa,
getta un ponte verso la ricerca americana degli anni Ottanta e Novanta, nel
museo rappresentata dal deposito Panza di Biumo.
Una esemplificazione, quella degli spazi dedicati alla Minimal americana,
affidata ad alcune straordinarie opere di Morris, Sol Le Witt, opere che
riassumono, nella sobrietà di rapporti formali apparentemente semplici, la
complessità della loro elaborazione concettuale. “Visibilmente le strutture
primarie, – spiega Maurizio Calvesi – nello stesso feticismo delle dimensioni,
discendono dalla pop art, benchè siano forme sastratte. Dietro il
parallelepipedo sdraiato dal profilo declinante si riconoscono i monumentali
dentifrici di Oldenburg, dietro i dadi e i blocchi rettangolari, le scatole
iterate di Warhol (l’inventore dell’immagine seriale) e la rigida volumetria di
Lichtenstein (il pittore dei fumetti). Ma costituiscono indubbiamente una
riduzione del linguaggio pop e se aprono nella direzione dell’architettura e
dell’urbanistica, per il resto può sembrare il contrario. In pittura, come in
scultura tendono infatti a chiudere il discorso, a ostruire, a paralizzare
formalizzando, deludono un po’ le fantasie più ansiose…
Io, il mondo, le cose, la vita
La grande stanza dedicata ai maestri italiani Merz,
Pistoletto, Pascali, Boetti, Scarpitta, Zorio, Paolini, Kounellis, con opere che
rappresentano il loro lavoro, cronologiamente comprese tra la fine degli anni
Sessanta e qualche incursione significativa in quelli Ottanta e Novanta, occupa
il cuore del percorso espositivo dedicato al secondo dopoguerra. L’insistita
centralità di questa sala è una esplicita sottolineatura dell’intervento
programmatico del museo nei confronti dell’ampliamento delle proprie collezioni,
che con un progetto mirato di acquisizioni, finanziato opportunamente solo a
partire dal 1997, ha messo l’arte italiana, dagli anni Settanta ad oggi, al
centro dei propri interessi museografici e patrimoniali. Nella sala sono
presenti gran parte delle opere acquisite nel corso di questi ultimi cinque
anni, segno della costituzione di un primo nucleo organico dedicato alla ricerca
italiana contemporanea, con una speciale attenzione ai protagonisti dell’Arte
Povera, cui seguirà negli anni a venire un’attenzione altrettanto organica per
le ricerche della neo-figurazione degli anni Ottanta, della Transavanguardia in
particolare.
La grande installazione di Pistoletto del 1968, Quartetto, che dialoga con il
curioso assemblage del 1971 di Tápies, è una sorta di manifesto della nuova
frontiera dell’arte italiana, che Germano Celant teorizza e chiama appunto Arte
Povera.
I rinoceronti di Pascali, le porte di Boetti (più concettuale, in questo
asciutto lavoro del 1966), il ferro del 1991 di Kounellis, la grande Stella per
purificare le parole di Zorio, l’igloo Chiaro scuro di Mario Merz, e, ancora, le
cinghie di Scarpitta e le gomme di Carol Rama danno una buona idea di quel clima
di grande progettualità che ha caratterizzato le istanze più avanzate dell’arte
italiana dopo la grande stagione informale. Se il discorso critico su questi
artisti e sui lavori qui presenti non può essere tutto contenuto dentro il
fenomeno dell’Arte Povera, è peraltro vero che tutte le opere qui esposte hanno
molto a che vedere con quel recupero di una naturalità dei materiali, spesso
contrapposti all’artificialità di prodotti della tecnologia, che fu una costante
del movimento teorizzato da Celant, così come è una costante del lavoro di
questi artisti il loro impegno “con l’evento mentale e comportamentistico, con
la contingenza, con l’astorico, con la concezione antropologica” – che ha fatto
di quest’arte, continua Celant – “un’arte che trova nell’anarchia linguistica e
visuale, nel continuo nomadismo comportamentistico il suo massimo grado di
libertà ai fini della creazione, arte come stimolo a verificare continuamente il
proprio grado di esistenza (mentale e fisica), come urgenza di un esserci che
elimini lo schermo del “fantastico” e mimetico dinanzi agli occhi della comunità
degli spettatori, per condurli dinanzi alla specificità mentale e fisica di ogni
azione umana, quale entità da completare e giudicarsi. Quasi una scoperta
tautologica estetica, il mare è acqua, la stanza è un perimetro d’aria, il
cotone è cotone, il mondo è un insieme impercepibile di nazioni, l’angolo è la
convergenza di tre coordinate, il pavimento è una porzione di mattonelle, la
vita una serie di azioni.”
Noi piantiamo gli alberi, gli alberi piantano noi
Anche Beuys crede nella taumaturgia dei materiali naturali,
nella necessità di una condivisione per così dire “sociologica” dell’atto
creativo, nel recupero del reale quotidiano come categoria in opposizione
all’immaginario e al fantastico. Ma tutto ciò è in lui attraversato da una
mistica dell’arte che non ha uguale in nessun altro artista del secolo appena
passato.
Spinto da una fede totale nel ruolo di responsabilità dell’artista, animato da
una ragione teorica che lo vede impegnato sul piano della comunicazione sociale,
antropologica, ma soprattutto spirituale, lo sciamano Joseph Beuys, è il
profeta, suo malgrado, di quella tragica fine del rapporto uomo-natura, che
segna in maniera indelebile la strada senza ritorno del nostro tempo presente.
Ma è anche l’attore di una delle più straordinarie avventure artistiche di
questo nostro secolo Ventesimo, delle lavagne, degli animali, degli happening,
delle piantagioni, il grande protagonista delle stagioni fertile di Fluxus,
della pratica Concettuale, del Comportamentismo, e, ancora e soprattutto, l’uomo
della parola e delle idee, che come semi messi a germogliare, ancora oggi danno
il loro frutto. Versione mistica e utopica di quell’arte totale, che fu
coltivata come ideologia proprio in terra tedesca nel corso del secolo XIX, e
che mutuò molte delle sue istanze anche nel patrimonio “genetico” della
Ricostruzione Futurista dell’Universo, il lavoro di Beuys, animato da una fede
steineriana nel concetto di natura, tolleranza e collaborazione, rappresenta il
punto di svolta, il nodo critico più avanzato e nello stesso tempo più esposto
della nostra ricognizione del XX secolo. A lui, al suo Grassello, risultato di
una performance che lo ha visto bagnare con l’acqua del nord la calce viva del
sud, in una combinazione alchemica di questi due elementi, spetta il compito di
chiudere la ricognizione del XX secolo.
La mia arte è il ritratto del mio essere nel mondo
Abbiamo attraversato tutte le terre possibili, abbiamo issato
bandiere in ogni dove, abbiamo occupato la natura. La nostra esplorazione ha
trasformato le foreste in città, i fiumi in acquedotti, i boschi in legna da
bruciare. Ci siamo riscaldati e dissetati, abbiamo protetto i nostri corpi. C’è
stato un tempo in cui la nostra occupazione del territorio procedeva di pari
passo con la nostra emancipazione culturale. Oggi quest’quilibrio non esiste
più. Long per questo cammina, anche se il suo intervento nella natura non ha
l’effetto di una emancipazione ecologica. Sale ad alte quote per intercettare il
confine tra la natura addomesticata e il paesaggio incontaminato, attraversa
pianure che si perdono a vista d’occhio. Sceglie gli spazi più adatti per
ricevere il dono di una pietra, di un calco dato dalla pressione del suo piede
sul terreno, e per dare nuova forma alle sembianze della natura, ricollocando,
spostando, ridisegnando nel disordine naturale uno spazio mitico, che poi
riproduce nel museo. È l’incontro tra la ragione e la casualità della natura che
dà vita ad un rito di iniziazione da cui nasce un nuovo ordine delle cose.
Qualcuno ricorda che negli anni ’50 un artista italiano quasi dimenticato, Remo
Bianco, andò nel deserto per spostare di pochi metri un granello di sabbia?
Mi afferro una ciocca di capelli e tiro
Le ferite del corpo che hanno alimentato l’immagine di morte
della Body Art, sono anche i segni del pennello con cui Rainer marchia a fuoco
il suo volto, accentuandone la mimica fino al parossismo, all’evidenza della
patologia:“Dal punto di vista ideologico, solo i malati e le malattie mentali mi
hanno comunicato idee illuminanti e possibilità di sviluppo personale20”. Ma
sono anche le tracce violentemente incise sulle smorfie delle maschere
funerarie, una sorta di morte della morte, una cancellazione fino al buio quasi
assoluto dell’immagine, che porta ad una ridefinizione del significato
dell’opera, ad una sua nuova interpretazione, ad una appropriazione totale.
“Quali cambiamenti, quali possiiblità offrono la sconfitta, la stanchezza,
l’esaurimento? Quando dopo considerazioni di bilancio, autodenigrazioni, mi
diventa chiara tutta la spazzatura accumulata, allora la malinconia e la
disperazione mi afferrano. Come posso liberarmi ancora una volta di questo carro
pieno di cadaveri di quadri, di nati morti accatastati? Dove e come seppellirli?
Dove e come bruciarli?”
Epilogo
Da questa stanza, il percorso verso l’arte del presente è un
cantiere. Procede, per definizione, in maniera disomogenea attraverso uno spazio
che sarà in continuo cambiamento, dove si mostreranno la varietà e le differenze
della ricerca attuale: la varietà per rimarcare la complessità dei linguaggi che
animano il lavoro dell’arte, le differenze per porre in capo al museo quella
responsabilità culturale, che proprio nell’apertura al di sopra e al di là delle
ideologie, gli permetterà di interpretare al meglio quella sua funzione sociale
e storica di luogo dell’aggregazione e dell’integrazione culturale, che oggi è
la prima emergenza allertata nella coscienza di chi gestisce il patrimonio
culturale pubblico.
Nel cantiere del presente le opere sono poco più di semplici segnali,
propedeutiche alla comprensione dello stato attuale dell’arte e diverse
evidentemente dai tableau drapeau che ci hanno mostrato questo parziale,
soggettivo, limitato sguardo sull’arte del XX secolo.