Il Futurismo. Uno sguardo allargato
Si è celebrato l'anno scorso il centenario del Futurismo il cui manifesto di fondazione fu pubblicato nel 1909 a parigi su "Le Figaro", che dava spazio in prima pagina agli enunciati fi Filippo Tommaso Marinetti, figlio di un facoltoso avvocato italiano di vocazione poeta ed editore della rivista "Poesia". Ma perchè la formula del manifesto e perchè a Parigi? Il manifesto programmatico fu un mezzo nuovo ed accattivamente per far conoscere le idee del Futurismo. Programmatico in quanto dichiarava "prima" quello che si sarebbe fatto "dopo". Per il panorama artistico si trattò di un evento del tutto uovo e rivoluzionario proprio perchè sottraeva la creatività "artistica" a quell'aura ancora bohémien dell'artista inteso come colui che coglie la sua "ispirazione" nell'atelier, oppenendovi invece l'attitudine del tutto moderna della "progettualità", cioè del concepire la creazione di un'opera d'arte non più come evento quasi metafisico, (l'ispirazione, intesa come una "visione psichica"...), ma piuttosto come il riusultato di una speculazione intellettuale. Questi manifesti (per la precisione "volantini") furono considerati innovativi perché, mutuando la prassi della pubblicità, erano distribuiti capillarmente a tutti, non solo agli addetti d'arte, ma anche per la strada, porta a porta, lanciati da tram, dal loggione dei teatri e così via. In questo modo si cercava di dare corpo a quello che diverrà in seguito uno dei cavalli di battaglia del Futurismo e cioè all'idea di portare l'arte al di fuori di gallerie e musei, verso la gente, nella vita quotidiana. L'Italia era ancorata a vecchi moduli del passato e uno degli intenti del Manifesto di Marinetti era quello di "svecchiare" e riqualificare l'Italia con questo suo nuovo movimento artistico di natura globalizzante. Futurismo, dunque, come slancio in avanti, verso le innovazioni della tecnica, verso una nuova era dinamica che tagliasse i ponti con tutti i "Pesi" del passato che rallentavano lo sviluppo del Paese, per colmare il gap sociale ed industriale rispetto alle grandi potenze europee.
Marinetti, che era un poeta, uno scrittore, che praticava dunque una disciplinaelitaria in una Italia ancora largamente illetterata e contadina, capì subito che, se voleva fare presa sulla gente, doveva usare il metodo dei "cantastorie", cioè lavorare soprattutto con le immagini, ma con delle immagini del tutto nuove, a forti tinte che, nel bene o nel male, attirassero l'attenzione della gente. Per questo raccolse attorno a sè, per sottoscrivere quel primo Manifesto, uno sparuto gruppo di giovani pittori, ancora sconosciuti, come Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Gino Severini e Luigi Russolo, accompagnati da un artista, già più maturo ed esperto, che era Giacomo Balla, "maestro" di Boccioni e Severini. Ma, come sempre accade, la teoria è molto più veloce della pratica e, di fatto, quando fu pubbliccato quel manifesto e quello che seguì di li a poco, dedicato alla "nuova" pittura futurista, una "nuova pittura futurista" non esisteva ancora. Questi artisti presero perciò a modello le opere dei cubisti cui aggiunsero i nuovi concetti della velocità e della macchina.
Ben presto si verificò quello che Marinetti aveva presvisto, sia per l'idea del Futurismo, che in breve divenne popolarissimo in tutta Europa, sia nella scelta di quei giovani artisti, tra i quali emerse prepotentemente la personalità di Boccioni, che si rivelò non solo dotato di tecnica pittorica ma anche di idee e progettualità teorica. Ciò permise a Marinetti di concentrasri meglio nei settori a lui più "cari", quelli letterari della prosa e della poesia, lanciando un manifesto dietro l'altro ed avviando una nutrita serie di edizioni futuriste, occupandosi anche di Teatro ed organizzando le famose "serate futuriste". Queste, per l'epoca, furono un evento inimmaginabile: una sorta di guerra tra poesia ed ortaggi. Da una parte i futuristi, che, sul palcoscenico, tra il serio ed il provocatorio, declamavano i manifesti e le loro liriche e, dall'altra, il pubblico che fischiava, ululava e lanciava ortaggi. Speso le serate proseguivanoa anche al di fuori dei teatri, con scazzottate e tafferugli che si concludevano quasi sempre in cella.
A Boccioni rimase così "in carico" tutto il settore delle arti visive. Se questa, a prima vista, sembrò una scelta felice nell'ottica della suddivisione dei compiti, alla lunga risultò però penalizzante per l'immagine del Futurismo, perché la debordante personalità Boccioniana, divenne (specie dopo la sua precoce scomparsa nel 1916) il punto di riferimento privilegiati nella lettura critica del Futurismo stesso. Marinetti non aveva considerato che l'impatto "pubblico" delle arti visive era di gran lunga maggiore rispoetto a quello delle discipline letterarie e questo permise a Boccioni di assumere una centralità quasi assoluta cui forse solo Carrà, tra i fondatori, seppe tenere testa con opere in un certo modo autonome. Russolo, invece, èpur tentando la via pittorica, si distinse sopratutto per l'invenzione degli intona rumori, ideale rappresentazione sonora della civiltà meccanica. E, infine, Severini fu sempre troppo equidistante da Futurismo e Cubismo tanto che, se si eccettua un gruppo sparuto di dipinti che potremmo definire "ortodossi", il suo "Futurismo" su sempre troppo cubista.
Per molti anni l'eccessiva attenzione critica su Boccioni non permise di accogliere appieno il ruolo di Balla che, proprio per questo, fu a lungo sottovalutato. Una lettura non esente da precisi "paletti ideologici", definiva come eroico quel futurismo che andava dall'anno della sua fondazione, il 1909, sino alla morte di Boccioni e Sant'Elia, nel 1916. Quindi, a differenza di Boccioni, la cui parabola artistica nel Futurismo è rimasta all'interno di quel periodo, Balla ebbe la "sfortuna" di soppravvivergli. Boccioni però era stato allievo di Balla e, pur essendo il teorico del "dinamismo-plastico", che fu certamente di grandissima importanza nella definizione di uno stile futurista, rimase nell'ambito di una post-figuraqzione, un lavoro il dato figurativo era più o meno presente con funzione "originante". Del resto basta scorrere alcuni dei suoi titoli più famosi come Dinamismo di un ciclista, Dinamismo di un foot-baller, Elasticità (di cavallo) per capire coem il suo fosse un percorso pensato "anti-cubista", quindi originato pur sempre dalla stessa attitudine verso il dato "reale". Già nel 1913 la ricerca pittorica di Boccioni iniziava ad entrare in crisi, in particolare con opere di forte sintesi volumetrica (come il già citato Dinamismo di foot-baller). La sua scomparsa lo colse poco dopo la realizzazione del monumentale ritratto del musicista Busoni, che mostrava il suo graduale "rientro" in un figurativismo post-divisionista.
Balla invece, dal 1912 al 1914 si occupò non di "dinamismo plastico"(artifizio ottico-pittorico applicato ad una base figurativa) ma di "studi cinetici" sul movimento, sul rumore e persino sui fenomeni astronomici. Era stato influenzato dalle ricerche fotografiche sul cinetismo di MArey e Muybridge (come Russolo quando aveva dipinto la sua auto in velcità). Lo dimostra l'opera Bambina che corre al balcone, del 1912, che Balla dipinge in uno stilea metà tra un divisionismo ed un puntillismo dilatato. Ma già in quello stesso anno lke su ricerche scartano in avanti, tanto che lo stesso Boccioni ne riconosce il grado "avanzato", dovuto alla introduzione dello studio della "velocità di automobile" che segue quello sul "volo delle rondini". E se nei primi esiti pittorici di questo studio il dato verista" è ancora riconoscibile(le stesse forme meccaniche del veicolo, seppur "esplose"), ben presto Balla, che inizia a lavorare per cicli, vi introduce quei "vortici dinamici" che sono la "risoluzione ottico-scientifica" del reale movimento di un oggetto "rotolante" nello spazio (le ruote). Di lì a poco la progressione di "segni curvilinei", che sottende alla "penetrazione dinamica" ed al successivo avanzamento di un solido nell'aria, è intesa non come un vuoto ma come un fluido. Balla va oltre ed intruce anche l'idea del "rumore", rappresentato da diavolerie meccaniche come l'automobile e la motocicletta. Marinetti definiva l'auto (allora di sesso maschile...) più bello della Nike di Samotracia, perchè emetteva un rumore assordante e piacevolmente futurista, in quanto "colonna sonora" della modernità. Seguono poi le ricerche sul concetto di vortice, di una formaq che in natura si colloca dinamicamente tra cielo e terra, e che Balla affronta come pura forma mentale sintetizzando, a sua volta, l'idea stessa del movimento, quel movimento che ha dato origine all'universo. Di lì a poco si arriva al ciclo delle pitture interventiste del 1915, che affiancano le manifestazioni di piazza per l'intervento dell'Italia in guerra contro l'Austria e si realizzano nel rapporto cromatico di forme plastico-dinamiche ispirate al tricolore italiano. E' del tutto assente in questo ciclo sia il riconoscimento che il riferimento ad oggetti reali, sostituiti piuttosto da pure forme mentali, da astrazioni analogiche che rinviano a concetti piuttosto che a fisicità relative. Lo stesso Boccioni non giunse mai ad un tale livello di elaborazione. E' ovvio che siamo alle origini dell'astrattismo italiano, che vede Balla in prima linea assieme a Depero, Prampolini, Baldessari, Trilluci e pochi altri, sempre futuristi. Non a caso il 1915 vede anche la pubblicazione del rivoluzionario manifesto Ricostruzione futurista dell'universo, redatto da Balla-Depero, che si firmano problematicamente "astrattisti futuristi" (cosa non capita dalla critica, di allora ed anche in tempi recenti). In quel manifesto sono poste le basi operative per il vero superamento di pittura e scultura , cioè per il "debordamento" del Futurismo nella vita quotidiana, idea sino ad allora solo appena accennata. Si tratta di quella che Enrico Crispolti molto felicemente definì come la "realtà sopravvenuta", ossia l'apertura verso orizzonti di complessità ed articolazioni operative sempre nuove: dalla letteratura alla pittura, dalla scultura all'architettura, dal teatro alla moda, dalla pubblicità alla tipografia ecc. Una prima istanza di prefigurazione di questa nuova "reltà sopravvenuta", è rintracciabile in termini di proiezione utopica nell'Architettura futurista, terreno immediato di sperimentazione della nuova dimensione urbana che si andrà a delineare. E se in un primo tempo l'apporto più conosciuto fu quello della metropoli futurista, utopica ed immaginaria di Antonio Sant'Elia (del 1914), successivamente furono divulgati analoghi contributi, seppur di minore "intensità" propositiva di Mario Chiattone, Depero e Boccioni e, in senso teorico, di Prampolini che pubblicò tra il 1913-14 L'atmosfera struttura. Basi per una architettura futurista, di fatto il primo manifesto futurista sull'architettura. In Boccioni, l'idea di architettura futurista è di natura formalmente plastica, avvolgente, ma è solo nel catalogo-manifesto della mostra romana di Depero del 1916 che si parla esplicitamente di "architettura dinamica": «L'architettura dinamica (città aerea). Prima audace applicazione architettonica dello stile astratto...». Si tratta di una immaginazione tutta Deperiana, non riferibile alle formulazioni di Boccioni o di Sant'Elia, ma piuttosto estensione evidente delle tesi sul "complesso plastico" di ricostruzione futurista rapportate, qui, alla dimensione urbana. A conclusione di questo breve riferimento all'archietettura futurista, va segnalato, alla fine degli anni Dieci, il contributo teorico di Virgilio Marchi, che media la visione futurista con un espressionismo architettonico mitteleuropeo caratterizzato dalle sue accentuazioni espressioniste, fortemente plastiche, che segnano le sue proposte architettoniche.
Ma un più immediato campo di sperimentazione pratica, effettiva, e non solo progettuale, è quello propriamente "ambientale", dove la ricostruzione si esplica tramite un ampio spettro di possibilità operative. Qui si trovano le premesse per le "Case d'Arte Futuriste", autentica testa di ponte per la ricostruzione nella società. Da esse nasce una quantità più o meno varia , più o meno utile, di oggetti per l'arredo della nuova casa del Futuro. Balla, prima con le decorazioni di Casa Lowenstein, a Dusseldorf, nel 1912, e poi con la revisione ambientale della propria casa romana, spesso aperta al pubblico per vendite straortdinarie, aveva posto le premesse per la più ampia sperimentazione ambientale. Poi, dal 1918, sempre a Roma, Enrico Prampolini e Mario Recchi avevano aperto la Casa d'Arte Italiana, cui erano seguite, sempre nel 1918, quella di Melli e quella di Bragaglia. Sul finire degli anni Dieci si aggiungeva qualla di Giannattasio, ancora a Roma, e quella di Depero, a Rovereto. Quindi, all'inizio degli anni Venti quella di Pippo Rizzo, a Palermo, e quella di Tato, a Bologna. Infine, una particolare segnalazione va all'Atelier di Lucio Venna, a Firenze, sebbene questi si sia specializzato esclusivamente in grafica pubblicitaria.
Anche il Teatro vede uno dei primi ed immediati campi di sperimentazione, per le sue evidenti possibilità plastiche, cromatiche, luminose, sonore, dinamiche. Vi si applicano Balla, con lo scenario per il Feux d'artifice di Stravinskij (1917) e Depero a più riprese (con scene costumi per i Balletti Russi, per Stravinskij, nel 1917, e poi con i Balli Plastici, che mette inscena a Roma nel 1918), sino al balletto "meccanico" delle locomotive, del 1924. Anche Enrico Prampolini vi si applica a livello teorico e Ugo Giannattasio con il suo Teatro del COlore (1920). Ed ancora Virgilio Marchi con scenografie metropolitane, ed Ivo Pannaggi che con Vinicio Paladini mette in scena il Ballo meccanicofuturista da Bragaglia nel 1922. Attività di scenografia è esercitata anche da De Pistoris, per le scene del Saul di André Gide (1923/24), e da Vera Idelson, una delle tante artiste russe come la Rozanova, la Zatkovà, e la Exter, che si sono avvicinate al Futurismo. Sua la scenografia per L'angoscia delle macchine di Ruggero Vasari (1927). E più avanti, verso gli anni Trenta si avvicineranno alla scenografia latri futuristi come Benedetta, Bruno Munari e Pippo Oriani).
Nell'arredo e nell'ambientazione, oltre ai lavori Balla e Depero, vanno ricordati quelli di Virgilio Marchi, con il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia e dell'annesso bar della Casa d'Arte dove realizza il soffitto luminoso. Vi è poi il complesso intervento di Ivo Pannaggi per Casa Zampini, ad Esanatoglia presso Macerata (1925/26) dove la ridefinizione dell'ambiente giunge a soluzioni molto vicine al Costruttivismo e De Stijl. Da segnalare, ancora, le ambientazioni d'interno di Vinicio Paladini, gli "ambienti novatori" di Fillia e, infine, le decorazioni di Geradro Dottori per l'Idroscalo di Ostia e per il ristorante Altro Mondo a Perugia, ambedue nella seconda metà degli anni Venti.
La "moda futurista" vede soprattutto il grande contributo di Balla, in particolare in termini propositivi, e poi quello di Depero con i suoi famosi pancciotti futuristi. Vanno poi segnalati la Tuta di Thayaht, del 1919, un assoluto precursore, la giacca futurista (senza collo) di Crali, dei primi anni Trenta, la cravatta metallica o Anticravatta di diu Renato Di Bosso, del 1933, gli ombrellini dipinti da Pippo Rizzo, tra il 1925 ed il 1928, ed infiine i panciotti in metallo ed i cappelli "estivi" o "piovosi" di Vctor Aldo de Santis (1931-33). Anche l'arte culinaria vede l'intervento futurista, quello di Marinetti e Fillia che pubblicano un volume di pazze ricette: La Cucina Futurista (1931). Altre ne idea e pubblica Depero e nel 1931, mentre a Torino si aprirà anche la Taverna futurista Santopalato che stampa i suoi menù su fogli di latta.
La ceramica vede il contributo illuminato di Tullio Mazzotti di Albisola, che anche grazie alla collaborazione di artisti quali Diulgheroff, Farfa, Munari e Depero, realizza una serie di incredibili oggetti futuristi.
Altro aspetto, infine, da prendere in considerazione, è quello della nuova tipografia, della nuova grafica futurista, con sviluppi organici delle teorizzazzioni Marinettiane della Letteratura futurista e delle Parole in Libertà. La nuova sensibilità "compositiva" dà origine nei futuristi ad un nuovo senso della visione. Tutto è sovvertito e piegato ai desideri della creatività: alto, basso, corpo, carattere. Nel settore parolibero vanno segnalate le sperimentazioni letterario tipografiche di Ardengo Soffici con il suo libro titolato Bif § Zf + 18. Simultaneità e chimismi lirici (1915), di Francesco Cangiullo con Piedigrotta (1916) e Alfabeto a sorpresa (1919), ovvero l’umanizzazione della scrittura, ed infine dello stesso Marinetti con libri “esplosivi” come Zang Tumb Tumb (1914), 8 anime in una bomba e Les mots en liberté futuristes (ambedue del 1919). Vi sono poi le tavole parolibere di Paolo Buzzi, quelle ideografiche di Corrado Govoni, e quelle di Arnaldo Ginna, solo per citare i più conosciuti 13 . Infine, nel campo più propriamente pubblicitario, lo sperimentatore più impegnato è Depero. Ma accanto a lui operano validissimi grafici-futuristi come Nicolaj Diulgheroff, lo stesso Prampolini, e saltuariamente Balla, e poi Ugo Pozzo, Farfa, il prolificissimo Venna, Paladini, e sul finire del decennio e nel corso degli anni Trenta anche Munari, Gambini, Benedetto e Crali. Una ventata di rinnovamento, infine, investì anche la danza, specie grazie alle innovative coreografie ed interpretazioni di Giannina Censi.
Tornando ai primi anni Venti, va detto che quale promanazione dello stile “astratto futurista” di Balla, delle “robotizzazioni” di Depero, e del postcubismo di Severini, si precisa un’ulteriore corrente in relazione, seppur marginalmente, allo spirito di ricostruzione futurista: quella dell’Arte Meccanica. E se il collegamento, con il Futurismo degli anni Dieci è appunto garantito dalla presenza di protagonisti come Balla, Depero e Prampolini, essa opera una grande apertura a problematiche di più ampio respiro, appunto nel quadro di un’avanguardia europea e di uno stile riferito ad un elementarismo plastico, ad un’essenzialità geometrica, del “mondo meccanico”, di partecipata ispirazione purista ed anche di una vaga accentuazione metafisica. L’accento è posto non tanto su di una mimesi della macchina, nella sua esteriorità (come nel caso di Epstein e Lewis, nel Vorticismo, o come, al di là dell’intrinseca ironia, nel lavoro di Picabia e Duchamp), ma piuttosto sullo “spirito” dell’oggetto meccanico in sé, dunque «creando composizioni che si valgono di qualsiasi mezzo espressivo ed anche di veri mezzi meccanici... coordinati da una legge lirica originale e non da una legge scientifica appresa». In altre parole, tendendo a cogliere, in “spirito” ed in “essenza” le infinite analogie suggerite dalla Macchina. Alla fine degli anni Venti Balla si allontana dal Futurismo mentre Depero si trasferisce a New York dove vive un’intensa stagione. Il Teatro, la Pubblicità soprattutto, con copertine per Vogue, Vanity Fair, The New Yorker, Sparks e molti altre riviste, e l’ambientazione, con i ristoranti Zucca ed Enrico
& Paglieri. Poi, lungo gli anni Trenta, anche la gioiosa arte di Depero si incupisce, si piega alle “necessità” alimentari e del regime, i colori si spengono, le forme divengono statiche. Lo spirito di ricostruzione futurista sembra per lui ormai lontano, ma non è perso. Infatti, sulla strada che con Balla egli ha aperto si è incamminata una lunga fila di discepoli.
Siamo infatti alla terza generazione di futuristi caratterizzata anche da una nuova denominazione: l’Aeropittura. F. T. Marinetti, nell’intento di rinnovare il Movimento futurista ed anche in stretta relazione alle imprese della giovane aeronautica militare italiana, imprime una decisa sterzata verso la nuova tematica aerea che diviene l’ispirazione primaria per le nuove opere dei futuristi. Ed i riferimenti più immediati sono i vari record di velocità e di altezza e le lunghe trasvolate solitarie o di gruppo effettuate nel corso degli anni Venti, epiche avventure che per i futuristi non erano tanto un’affermazione del regime fascista quanto piuttosto un’affermazione del “genio italico”. Il tema aereo non era del resto una novità, in ambito futurista, essendo presente a più titoli sin dagli esordi del movimento. Quando, infatti, Marinetti “lanciava” i suoi primi manifesti futuristi, all’inizio degli anni Dieci, le manifestazioni della fase pionieristica dell’aviazione erano molto popolari in tutta l’Italia. Dopo i voli dimostrativi di Delagrange, nel 1908, erano sorti un po’ dappertutto vari “concorsi”, ovvero raduni aerei, con dimostrazioni ed evoluzioni sopra le città: a Brescia (1909), a Milano e Firenze (1910), a Torino (1911), e così via, i primi, traballanti, aeroplani avevano subito soppiantato anni di tradizioni aerostatiche. Però, a parte numerosi riferimenti al volo nelle opere letterarie di F. T. Marinetti (L’Aeroplano del Papa), di Folgore (Il Canto dei Motori), di Paolo Buzzi (Aeroplani), e di altri, l’iconografia della velocità prodotta dai primi futuristi, sia in termini visivi che letterari, era sostanzialmente “terrena”, greve, ben radicata al suolo. I soggetti favoriti erano infatti di volta in volta “la velocità” di un treno, di un tram, di un’automobile, di una bicicletta, di un cavallo. Insomma, a dispetto del loro ruolo di novatori essi erano ancora legati al vecchio secolo, all’ottocento, al secolo della “velocità terrestre” (della prima metà del secolo è il treno a vapore), mentre invece il novecento è il secolo dell’aria e dello spazio: dall’aeroplano al viaggio sulla Luna. Ed è in quest’ultimo ambito che crescono la seconda e terza generazione di futuristi: nate cioè all’insegna della “liberazione dalla terra”.
Azari, Depero, Benedetta, Crali, Di Bosso, D’Anna, chi più chi meno, tutti si ritrovano spesso a volare, a “spiralare” sopra le città, a riplasmare la loro “visuale” del mondo. Il loro taglio con il passato è, simbolicamente, il volo di D’Annunzio su Vienna, nel 1918. La loro prima ispirazione le imprese degli aviatori italiani, da Laureati, a Ferrarin, a De Pinedo, a Balbo. Il loro teorico, Fedele Azari, autore del manifesto Teatro Aereo Futurista, del 1919.
Tuttavia, bisognerà attendere la fine degli anni Venti, allorquando il tema aeropittorico muoverà dalla sua posizione periferica per divenire il vero “cuore” ed il nuovo volto del Futurismo alla soglia dei vent’anni dal manifesto di fondazione. Con il Manifesto dell’Aeropittura, si apre dunque il nuovo decennio all’insegna di una nuova sensibilità, estetica e poetica. Ed a ben leggere quel documento si potrà scoprire come le sue proposizioni teoriche siano ben lontane da qualsiasi accento ideologico o politico, anzi esse mostrano un’urgenza, una pulsione, verso la ricerca di una dimensione che ad un certo punto non sarà più né terrena, né aerea, ma propriamente cosmica. Si tratta di una nuova connotazione che usa il “mezzo aereo” per giungere ad uno “strappo” dalle contingenze terrene e che sfocerà in un “idealismo cosmico” con via via sempre più evidenti vocazioni “spirituali”, sino a giungere di lì a poco all’Arte Sacra Futurista. Enrico Prampolini e Luigi Colombo, in arte “Fillia” sono i rappresentati più qualificati di questa tendenza. In seguito anche l’Aeropittura mutò, ed assunse altre declinazioni: dapprima quella “documentaria”, dove cioè il “mezzo aereo” diveniva il soggetto delle opere degli artisti che lo ritraevano (spesso con indulgente verismo) in una varietà di situazioni di volo, infine “di bombardamento”, negli ultimi anni del regime, cioè negli anni di guerra, dove avvenne, lì si, la massima convergenza con il fascismo. Ma si era alla quarta generazione di futuristi, giovani per i quali il regime era la normalità di tutta una vita vissuta “inquadrati”: dagli otto ai quattordici anni Balilla, dai quattordici ai diciotto Avanguardisti e dai diciotto ai ventuno Giovani Fascisti al motto di “libro e moschetto, fascista perfetto”, per non dimenticare i “figli della Lupa”.
Un’ultima menzione merita infine l’annosa questione dei rapporti Futurismo-Fascismo. Si tratta di un equivoco di fondo che bisogna puntualizzare subito proprio perché una lettura frettolosa degli avvenimenti ha determinato un’altrettanta frettolosa etichettatura che è stata la principale causa della “scomunica” ideologica di gran parte della critica italiana verso il futurismo sino a pochi anni fa. Niente era più errato in quanto il movimento di F.T. Marinetti, per via della sua composizione eterogenea, fatta di correnti artistiche ed ideologiche a volte anche in contrasto tra loro, non aveva di fatto un’ideologia definita, a parte le dichiarazioni di propaganda e di circostanza, utili solo a garantirgli una qualche tranquillità e sopravvivenza con il regime. Il Futurismo era perciò un’attitudine verso la vita, anziché una vera e propria ideologia, quella stessa attitudine nella quale il primo fascismo affondò le sue radici. Un’attitudine che proveniva, come ha suggerito Renzo de Felice, da una «comune condizione di disagio psicologico, morale, culturale e sociale che l’aveva prodotta: disagio e protesta che con la prima guerra mondiale furono accentuati da ulteriori valenze politiche e rivoluzionarie...». In breve, sia il futurismo che il fascismo mossero dal medesimo contesto di dissenso sociale, ma, mentre il primo fascismo fece propria la carica rivoluzionaria e sovversiva del futurismo, l’esaltazione della violenza da parte dei futuristi era l’espressione di una “posa” letteraria piuttosto che di una convinzione ideologica e politica. Così, l’adesione futurista al “nazionalismo militante”, all’inizio e durante gli anni del- l’Interventismo (1914/15), e in seguito con l’avventura fiumana di D’Annunzio (1919) e la nascita del partito fascista, erano vissuti dall’avanguardia italiana come una possibile “via” alla realizzazione della sua “anima rivoluzionaria”. Solo in quest’ottica possiamo allora comprendere la grande adesione al fascismo da parte di artisti e letterati: un fatto che mancò completamente nella Germania nazista.
Inoltre, mentre questa convergenza tra futurismo e fascismo (maturata nel 1918-1919) è ben nota, molto meno lo è la “rottura”, avvenuta nel maggio 1920, quando Marinetti e i futuristi uscirono dai “Fasci di Combattimento” ed aprirono ai socialisti, come protesta contro il passo indietro di Mussolini rispetto alle posizioni anti-monarchiche ed anticlericali. Si concretizzò così quella “separazione” di competenze («l’arte ai futuristi, la politica a Mussolini») che da quel momento in poi caratterizzò il Movimento futurista. Infatti, una volta che il fascismo fu al potere, agli artisti fu “chiesto” di occuparsi solo di problemi estetici. Così Marinetti fu costretto ad accontentarsi di una posizione marginale, e dovette rinunciare ai suoi progetti totalizzanti per garantire la sopravvivenza del movimento. Una volta che gli artisti furono “normalizzati” il regime, comunque, optò per una politica di tolleranza. «In pratica – nota E.R. Tannenbaum – l’impegno del regime per un totalitarismo culturale e intellettuale era soprattutto organizzativo: una volta che un artista o uno scrittore si fosse inserito nell’appropriata istituzione fascista, era relativamente libero di produrre ciò che voleva».
In questo contesto s’inserisce anche la definizione di quello che poi sarà classificato come “Stile del Ventennio” che non fu così lineare come si crede perché seguì propriamente le vicende istituzionali del fascismo nelle sue varie fasi di consolidamento. All’inizio, ad esempio, nei primi anni Venti, il fascismo era ancora un coacervo di tendenze: da quelle nazionaliste a quelle più propriamente rivoluzionarie se non sovversive. Un po’ lo specchio del “futurismo di dopoguerra” nel quale Marinetti ammetteva artisti di tendenza artistica e politica le più diverse. Si veda il caso dei futuristi “di sinistra”, come Piero Illari direttore della rivista «Rovente» che fu presente a Livorno alla nascita del Partito Comunista Italiano; si veda l’opera ed il pensiero di Vinicio Paladini ed Ivo Pannaggi, ai limiti del costruttivismo, si pensi a Franco Rampa Rossi, ed a tanti altri futuristi con evidenti addentellati a sinistra. Logico, dunque, che in quei primi anni di potere, quando il fascismo non era ancora “statalizzato”, vi siano state innegabili convergenze con la poetica futurista, i cui stilemi “dinamici” ed il cui cromatismo, rosso acceso e “sovversivo”, ben si addicevano al primo programma culturale elaborato da Mussolini. Di lì a poco, però, una volta consolidato il potere, il regime non poté più permettersi di “avere in casa” un’arte rivoluzionaria, cioè destabilizzante e dunque alla lunga potenzialmente pericolosa per la sua stessa sopravvivenza. Sorse perciò la necessità di un’arte “funzionale al regime” che ne sancisse cioè il suo consolidamento istituzionale, un’arte pacata, greve, statica e celebrativa. Ed è appunto in quest’ottica che Mussolini, in un discorso pronunciato all’Accademia di Perugia nel 1926, se ne uscì con l’affermazione, contraddittoria, che l’arte dell’Italia fascista doveva essere «tradizionalista e moderna». Insomma un’antinomia di termini che vedeva la sua origine in una questione allora ancora irrisolta: ovvero se accettare le proposte di rinnovamento dei futuristi, oppure rivolgersi verso una rivalutazione della cultura neoclassica, ed in particolare del monumentalismo della Roma Imperiale, il cui fascino in termini di immagine sollecitava non poco le mire di grandeur del regime. Fu poi, nel 1932, la Mostra della rivoluzione fascista, a sancire l’affermazione di una serie di valori (e di stilemi ad essi correlati): monumentalismo romano, lettering cubitale ed architettonico, effetti scenografici, colorismo rude e segno rozzo, cioè (nelle intenzioni) virile. Insomma l’affermazione del movimento antagonista del futurismo, e cioè il Novecento di Margherita Sarfatti, con le sue componenti di «coralità» socializzante. Il Novecento, dunque, piuttosto che il Futurismo, fu appunto funzionale agli scopi promozionali e di propaganda del regime, ai grandi cicli pittorici e decorativi negli edifici pubblici. Insomma, nonostante il regime fascista sia ormai consolidato, i futuristi rimangono comunque dei “non allineati”, nel senso di una pluralità di posizioni ideologiche e politiche al loro interno.
E’ per questo che Mino Somenzi, dalle colonne dell’organo ufficiale del movimento («Futurismo»), può scrivere all’inizio del 1933 che il “Futurismo è una forma d’arte e vita; il fascismo una forma politica e sociale: cose diametralmente opposte” . Gli farà quasi subito eco Paolo Buzzi affermando: “Estrema sinistra! C’è un solo futurismo: quello di estrema sinistra”. Di lì a poco, all’inizio della seconda metà del decennio, con il coinvolgimento bellico dell’Italia, dapprima in Africa e quindi in Spagna, si registra un generale cambiamento, un restringimento del campo d’azione delle dinamiche culturali, e comunque nei confronti di tutta la società civile. Da questo momento in avanti gli artisti impegnati sul fronte delle commesse pubbliche non potranno più esimersi da un appoggio politico.
Anche il futurismo si dovrà allineare, e di pari passo con gli sviluppi politici della nazione, sempre più drammatici, si giungerà all’Aeropittura di Guerra. Questa, in sintesi, una breve storia del Futurismo, ben oltre i limiti ideologici che per anni ne hanno penalizzato una lettura a tutto campo.
Sono stati definiti “i maestri” o anche “la prima cerchia”, o semplicemente “i fondatori”. Quale che sia, sonoloro che sottoscrivono il manifesto di fondazione del Futurismo, ideato da Marinetti e pubblicato su vari giornali italiani sin dal 5 febbraio 1909 e, a livello internazionale, su “Le Figaro”, di Parigi, il giorno 20 dello stesso mese. Si tratta di Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Gino Severini e Luigi Russolo. Balla è il più anziano di tutti (è stato maestro di Boccioni e Severini), e quasi tutti provengono da precedenti esperienze divisioniste o, nel caso di Severini, cubiste. Di fatto, mentre il Futurismo è un “movimento globale”, che origina dalla letteratura, ma si espande in vari settori, i “maestri” sono solo pittori, e quandofirmano quel manifesto, così come di lì a poco, quello sulla “Pittura futurista”, ancora non esisteva una pittura futurista. Loro, comunque, aprirono la strada, infiammando schiere di giovani che poi li seguirono. |
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GIACOMO BALLA Velocità+Luci, 1913 c. |
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GIACOMO BALLA Linea di velocità+Vortice, 1913-1968 |
UMBERTO BOCCIONI La Madre, 1911 |
GINO SEVERINI Forme in espansione, 1914 c. |
LUIGI RUSSOLO Dinamismo di un treno in corsa nella notte, 1911 c. |
CARLO CARRA’ Cavallo e cavaliere, 1915 |
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GIACOMO BALLA La costellazione di Orione, 1910 |
FORTUNATO DEPERO Ritmi di ballerina + clowns, 1914 |
ENRICO PRAMPOLINI Figura+Paesaggio, 1914 c. |
GERARDO DOTTORI Motociclista, 1914 |
ROBERTO M. BALDESSARI Il treno in arrivo alla stazione di Lugo, 1916 c. |
FORTUNATO DEPERO Costruzione di donna con fiore giallo, 1917 c. |
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FORTUNATO DEPERO Depero astrattista, 1915 |
FORTUNATO DEPERO Tavola parolibera interventista, 1915 |
GIACOMO BALLA Paesaggio + Velo di vedova, 1916 |
EMILIO NOTTE Soldati in azione, 1917 c. |
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ROBERTO M. BALDESSARI Soldati + esplosioni di granata, 1918 |
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GIACOMO BALLA Colpo di fucile domenicale, 1918 |
GIACOMO BALLA Dedica a Depero, 1918 |
FORTUNATO DEPERO Simultaneità, 1913 |
ROBERTO M. BALDESSARI Dinamismo di forme (Forme dinamiche 16°), 1915 c. |
ROBERTO M. BALDESSARI Espansione di forze (Dinamismo), 1915 c. |
FORTUNATO DEPERO Danza di chiofissi, 1918/19 |
ENRICO PRAMPOLINI Costruzione spaziale - Paesaggio, 1919 |
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Il “nodo romano” del 1915, cioè la “svolta” introdotta da Balla e Depero con il manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo” aveva di fatto spostato il baricentro del Futurismo dal ristretto ambito letterario-pittorico a quello più vasto delle arti applicate, ma sino almeno al 1919, a causa degli eventi bellici, tutto aveva preso un’altra piega con i futuristi al fronte. Ora, il nuovo decennio si apre all’insegna di questo vasto orizzonte operativo e nella consapevolezza che il Futurismo ha gli strumenti per “entrare nella vita”: dall’architettura, all’arredo d’interni, alla moda, alla pubblicità, al rinnovamento tipografico, e così via. Il Futurismo si apre anche ad un ventaglio di nuove suggestioni, grazie a questa seconda generazione di futuristi aperti ai contatti internazionali: Prampolini, con l’area del Purismo francese; lo stesso Marinetti, vicino a Karel Teige ed alle nuove ricerche cecoslovacche; Pannaggi e Paladini all’Immaginismo russo, mentre i futuristi giuliani Carmelich e argo sono il trait d’union con l’area costruttivista jugoslava. A Torino giunge invece il bulgaro Nicolay Diulgheroff, che porta con sé la sua esperienza alla Bauhaus, e s’incontra con Fillia, anch’egli molto vicino agli ambienti proletari dei costruttivisti: è il “Futurismo rosso” torinese, del quale i primi critici del Futurismo non si accorgono neppure, troppo impegnati a catalogare tutti i futuristi come fascisti. Nascono qui le premesse dell’Arte Meccanica Futurista, il manifesto a firma Pannaggi e Paladini del 1922, cui si associa idealmente il Depero delle marionette robotizzate. Via via il Futurismo esce dai grandi centri e allarga la sua geografia, dalla Sicilia al Trentino. Ma gli anni Venti sono anche “arte e stati d’animo”, “arte e spirito”, con Benedetta, pittrice e scrittrice, nonché attivissima moglie di Marinetti. |
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GIACOMO BALLA L’idea, 1920 |
GIACOMO BALLA Numeri simpatizzanti, 1924 c. |
ROBERTO M. BALDESSARI Spirale tricolore su Roma, 1923 |
BENEDETTA Ritmi di rocce e mare, 1929 c. |
VINICIO PALADINI Collage di paesaggio urbano, 1920 c. |
IVO PANNAGGI Il costruttore, 1925 |
FILLIA Bicicletta. Fusione di paesaggio. Idolo meccanico, 1924 |
GERARDO DOTTORI In corsa, 1926 c. |
VITTORIO CORONA Dinamismo di un treno, 1921 |
PIPPO RIZZO Treno in corsa, 1929 c. |
ANTONIO MARASCO Senza titolo (L’appartamento di Euclide), 1929 |
GERARDO DOTTORI Progetto per la decorazione dell’Idroscalo di Ostia, 1928 |
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ENRICO PRAMPOLINI Composizione biologica, 1930 |
DOMENICO BELLI Polimaterico “B”, 1935 |
GIULIO D’ANNA Virata sul golfo, 1930 c. |
ANGELO CANEVARI Scivolata d’ala, 1930 |
ENRICO PRAMPOLINI Paesaggio di Capri, 1932 c. |
GIOVANNI KOROMPAY Bolidi+Strada, 1933 |
RENATO DI BOSSO Aeropittura di Piazza Erbe a Verona, 1934/35 |
TULLIO CRALI Aerocaccia II, 1936 c. |
RENATO DI BOSSO Paracadutista in caduta, 1935 |
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TATO Diavoleria di eliche, 1936 |
BARBARA L’aeroporto abbranca l’aeroplano, 1938 |
Info Mostra
FUTURISMO DINAMISMO E COLORE
Museo "Vittoria Colonna"
Pescara
Data della mostra
21 luglio - 7 novembre 2010